Diamanti: la Banca è responsabile per il danno economico subito dai clienti che hanno acquistato i diamanti in filiale e va condannata al risarcimento.
di Redazione Compliance Legale
Indice
Arriva una nuova possibilità per i risparmiatori truffati dai diamanti venduti in banca a prezzi gonfiati.
Già da qualche anno, in parallelo con l’indagine Antitrust, diverse procure hanno avviato un’indagine per truffa su banche e società coinvolte nella vicenda: Unicredit, Intesa San Paolo, MPS, Banco Bpm e le due società DPI e IDB.
Nell’ambito del procedimento la Guardia di Finanza ha sequestrato preventivamente ben 700 milioni di euro e si aprono così nuove possibilità per i risparmiatori truffati.
Nell’ottobre 2017 l’Antitrust aveva multato per più di 15 milioni di euro le due società venditrici di diamanti e le quattro banche che avevano venduto a prezzi gonfiati le loro pietre a ignari clienti, spacciandoli per investimenti sicuri e senza informare dei rischi reali e dell’impossibilità di rivendere i preziosi acquistati.
Le banche sanzionate furono Intesa San Paolo, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena e Banco BPM, assieme alle due società IDB e DPI.
In quella sede L’Antitrust aveva infatti accertato che erano state fornite “informazioni ingannevoli e omissive” ai consumatori nelle modalità di offerta dei diamanti.
Alle società venivano contestate informazioni ingannevoli su quotazioni di mercato, loro andamento e prospettive di liquidità.
Truffa sui diamanti: la condanna del Tribunale di Verona
Il Tribunale di Verona ha condannato, per la prima volta in Italia, il Banco BPM a risarcire il danno causato a un investitore dalla vendita di diamanti di Intermaket Diamond Business (IDB).
All’investitore, indotto a comprare i diamanti presentati come bene rifugio, è stato riconosciuto il risarcimento del danno, derivante dalla differenza fra il reale valore dei diamanti e il prezzo pagato.
Non è stato invece riconosciuto il danno morale.
Il Giudice dato atto delle precedenti pronunce dell’Antitrust e del TAR Lazio, rileva il difetto di informazione corretta circa le varie componenti del prezzo di acquisto dei diamanti.
Parte attrice, nel caso di specie, ha convenuto in giudizio IDB e il Banco BPM, per sentir accertare la nullità, per violazione di alcune norme del T.U.F., di un contratto di acquisto di cinque diamanti, che la predetta aveva concluso il 23 settembre 2016 e che le era stato proposto dal funzionario di filiale dell’istituto di credito, come forma di investimento alternativo.
Il ricorrente ha svolto in via alternativa anche una domanda di risoluzione del predetto contratto per violazione, da parte delle resistenti, degli obblighi informativi e comportamentali di cui agli artt. 21 T.U.F e 27,39,40,41 e 42 Reg. Consob 16190/2007 o per violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e quella conseguente di condanna al risarcimento dei danni patiti, quantificati nella somma pagata a titolo di prezzo per la predetta compravendita (euro 46.222,40).
Nonché, inoltre, nella domanda di annullamento della operazione di acquisto dei diamanti e di condanna alla restituzione della somma corrisposta in esecuzione di essa.
Entrambi i resistenti si sono costituiti in giudizio e hanno contestato la fondatezza sia in fatto che in diritto delle domande avversarie.
Il giudizio è stato interrotto a seguito del fallimento di IDB e successivamente riassunto dal ricorrente nei confronti del solo Banco Bpm.
Parte attrice ha rilevato che era del tutto ignara che il costo complessivo dei diamanti comprendesse solo in (minima) parte il valore reale della pietra e fosse gravato, invece, da una pluralità di oneri accessori.
Si sottolinea come la stessa IDB pubblicasse, sui quotidiani economici e sul materiale promozionale, delle cc.dd. “quotazioni”, che di fatto non erano altro che i prezzi di acquisto dei diamanti decisi dalla stessa società venditrice.
Il contenuto dell’ordinanza.
È significativo quanto si legge nell’ordinanza:
“La rimessione alla sola IDB della definizione dei prezzi di vendita dei diamanti consentiva ad essa anche di fornire una rappresentazione fuorviante dell’andamento di quello che era presentato come il mercato di tali preziosi, volta ad avvalorare la bontà dell’investimento in essi in termini di convenienza e redditività di lungo periodo“.
Nelle brochure prodotte dal Banco si affermava, rispettivamente, che era “Un rendimento sicuro nel tempo” e che la sua “quotazione” era “destinata ad aumentare naturalmente) e al contempo evitava di dar conto delle oscillazioni di prezzo, che invece vengono oggettivamente registrate dai diversi indici basati sulle rilevazioni di contrattazioni”.
Al fine di valutare la posizione di Banco Bpm occorre muovere dall’esame delle doglianze attoree che riguardano IDB.
Risulta pacifico il fatto che il ricorrente ha sostenuto come la conclusione dell’operazione di acquisto dei diamanti è stata resa possibile grazie al contributo causalmente efficiente, di carattere sia commissivo che omissivo proprio dell’Istituto di Credito, che quindi sarebbe fonte di responsabilità per la banca sotto diversi profili prospettati.
La Banca era perfettamente a conoscenze della poca liquidità dell’investimento, elemento che tra l’altro emergeva anche dalle sue linee guida, dove si raccomandava di non superare una certa soglia di capitale investito proprio perché la liquidità era ridotta ed erano previste considerevoli commissioni di vendita.
Inoltre, il prezzo di vendita dei diamanti, oltre ad essere comprensivo di Iva era stato determinato includendovi il corrispettivo per una serie di servizi accessori forniti all’acquirente.
Tra questi, in particolare, la custodia dei diamanti con relativa assicurazione, la consulenza prima e dopo la vendita, la fornitura della certificazione gemmologica, l’elaborazione e pubblicazione dei prezzi di compravendita.
Va da sé che considerate le varie componenti e commissioni, il costo di acquisto, o reale valore, delle pietre non poteva che avere una incidenza minoritaria sul prezzo totale pagato dal cliente.
Ed è proprio in merito a questo aspetto, è emerso, nel corso del processo, che le resistenti NON hanno dimostrato che di tali rilevanti aspetti il risparmiatore fosse stato informato prima di concludere il contratto.
L’inganno delle quotazioni dei diamanti fasulle.
Proseguendo nell’esame delle doglianze attoree, il Tribunale accerta, altresì l’inganno praticato dalla IDB – e di certo non disvelato dalla banca – che aveva definito “quotazioni” dei diamanti, quelle che in realtà erano una mera lista interna dei prezzi applicati ai diamanti della stessa società e che venivano pubblicate periodicamente a pagamento sul quotidiano “Sole24Ore”.
La fonte delle “quotazioni” dei diamanti era dunque la stessa IDB e la pubblicazione di esse non era altro che la pubblicazione, a pagamento, del suo listino prezzi, i cui costi peraltro, come detto sopra, venivano caricati sui clienti.
Il Giudice, sul punto, dà atto che di tale natura autoreferenziale e pubblicitaria dei dati, non era consapevole o almeno conoscibile al risparmiatore/attore, atteso che non era stata presentata come tale, né era univocamente deducibile dall’utilizzo del logo e di espressioni quali “a cura di” (a sua volta equivoca, perché tale da evocare più un’attività di ricerca che di autovalutazione).
Quei dati, per contro, venivano accreditati di un crisma di ufficialità perché pubblicati su un giornale economico di primaria importanza e con una veste grafica simile alle quotazioni ufficiali e perciò risultavano ulteriormente ingannevoli.
Ulteriormente artificiose e fuorvianti erano le informazioni presente nel materiale divulgativo di IDB, ove si sottolineava anche che la qualità dei diamanti era in grado di assicurare come l’investimento fosse monetizzabile in qualsiasi momento e in qualsiasi parte del mondo in tempi reali di mercato.
Invero tali possibilità nel caso di specie erano alquanto remote, considerate le modalità di determinazione del prezzo di acquisto dei diamanti e del conseguente ampio scostamento tra l’effettivo valore delle pietre e il prezzo corrisposto per il loro acquisto.
“Le prospettate rivendibilità e redditività non erano dunque veritiere ed oggettive perché erano esclusivamente collegate all’eventualità che fosse una controllata di IDB, IDB Intermediazioni, a ricollocare, previa assunzione di un mandato a vendere eventualmente rinnovabile, diamanti, alle “quotazioni” pubblicate da IDB, prevalentemente, se non esclusivamente, nell’ambito del circuito messo creato da IDB e dagli istituti di credito di cui essa si avvaleva”.
Il Tribunale, attraverso un ragionamento articolato ma chiaro, accerta la responsabilità della banca per le circostanze esposte, vista la consapevolezza della scarsa liquidità dell’investimento in esame, derivante anche dai parametri di riferimento del Banco BPM, dove si raccomandava di non superare una determinata soglia di capitale investito proprio perché la liquidabilità era bassa ed erano previste delle commissioni di disinvestimento, il cui ammontare era destinato a diminuire progressivamente a seconda del numero di anni trascorsi dal momento dell’acquisto.
Inoltre neanche l’alea del ricollocamento era stata tuttavia in alcun modo esplicitata al risparmiatore.
Inoltre si evince infatti innanzitutto che Banco Bpm aveva un fortissimo interesse economico alla conclusione dei contratti di acquisto dei diamanti poiché da ciascuna transazione ricavava una consistente provvigione, pari ad una percentuale dell 18% dell’ammontare della operazione conclusa, secondo quanto precisato nella circolare del 3.11.2011, vigente al momento della conclusione della transazione per cui è causa .
È lampante come l’entità di quella commissione non poteva giustificarsi se non attraverso una attività propositiva dell’acquisto dei diamanti da parte dell’istituto di credito.
È proprio per perseguire tali interessi che la Banca non si limitava al ruolo di segnalatrice, ma sollecitava effettivamente l’interesse del cliente, proponendo quel tipo di investimento:
La Banca – rileva il Giudice – “quindi aveva l’obbligo, e non solo l’interesse, a promuovere presso la propria clientela la conclusione dei contratti di compravendita operando come intermediario a favore di IDB”.
Il Tribunale precisa, infatti, che “il coinvolgimento dell’istituto di credito era essenziale per favorire la conclusione delle vendite dei diamanti perché, non solo la rete bancaria costituiva il principale canale di cui serviva IDB, ma perché esso valeva a conferire affidabilità a tale attività, data la fiducia che i clienti riponevano nella banca in virtù del rapporto preesistente con essa”.
Responsabilità della banca.
Da ciò si ricava la responsabilità della Banca, sotto il profilo dell’incolpevole affidamento del cliente, che – proprio in conseguenza della “garanzia” del proprio Istituto – si era determinato ad effettuare l’investimento.
E’ di interesse l’ulteriore profilo su cui si sofferma l’ordinanza ovvero la condotta omissiva, e quindi anch’essa fonte di responsabilità, della Banca, la quale ha ammesso di non aver operato alcuna verifica sul contenuto della proposta di vendita, sebbene l’ordine fosse stato concluso presso i suoi locali e dietro espressa sollecitazione.
In merito al fondamento normativo della responsabilità della Banca, il Tribunale, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa attorea, non riconosce la violazione della disciplina del T.U.F. (Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) al caso di specie, atteso che il diamante non viene considerato uno strumento finanziario, secondo la definizione che di esso ha dato la giurisprudenza (Cass. Civ. 15 aprile 2009, n. 8947; Cass. Civ. 5 febbraio 2013, n. 2736).
Per cui, secondo il Tribunale di Verona, la fonte della responsabilità della banca va invece individuata, nel rapporto intercorso tra la il cliente e l’istituto di credito in relazione all’acquisto dei diamanti, nell’ambito del quale il primo ha posto affidamento in un dovere di diligenza gravante in capo al secondo, in virtù delle sue specifiche competenze professionali. La norma interessata è l’art. 1173 c.c., perché la Banca ha violato l’obbligo di informazione e di protezione nei confronti del risparmiatore.
Inoltre viene altresì individuata una base contrattuale per gli obblighi gravanti sulla Banca, con conseguente applicabilità dell’art. 1218 c.c., visto che l’attività di vendita dei diamanti, alla quale quest’ultima ha contribuito, può farsi rientrare nelle attività connesse a quella bancaria, ai sensi dell’art. 8, comma 3, del D.M. 6 luglio 1994 (“attività accessoria che comunque consente di sviluppare l’attività esercitata”).
Per cui la buona fede diventa “buona fede integrativa”, presupponendo anche obblighi di protezione dell’altro contraente.
Dall’accertata responsabilità della Banca ne deriva l’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni, in conseguenza dell’acquisto dei diamanti: il Tribunale, infatti, ritiene giustamente sussistente una responsabilità solidale con IDB, in virtù dell’art. 2055 c.c.
Quantificazione del danno.
Sulla base di tale determinazione, il danno viene quantificato, in via equitativa, nella differenza tra il prezzo pagato dal cliente e il reale valore dei diamanti, ad esito di perizia di stima diretta sulle pietre.
In argomento è significativo che il Tribunale abbia respinto la richiesta della Banca di diminuire tale importo ai sensi dell’art. 1227 c.c., dal momento che il risparmiatore non poteva certamente essere in grado di evitare il pregiudizio, non avendo mai avuto consapevolezza e conoscenza delle effettive caratteristiche dell’investimento.
La Banca è stata, così condannata anche a pagare le spese legali al cliente.
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