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Tra le modifiche apportate alla legge 7 agosto 1990, n. 241 dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120 (c.d. Decreto Semplificazioni), particolare interesse suscita quella relativa all’art. 10-bis, concernente l’obbligo di “Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”, giacché la modifica ha senz’altro il pregio di riconoscere maggiore incisività allo strumento sotteso alla predetta disposizione, volto ad inverare, mediante la partecipazione del privato al procedimento amministrativo, il principio del contraddittorio tra soggetto interessato e pubblica amministrazione nei procedimenti ad istanza di parte.
Si tratta, invero, di modifiche volte a ricalcare soluzioni interpretative cui la dottrina e talvolta la giurisprudenza erano già pervenute. Per cogliere, seppur sinteticamente, a pieno il significato dell’intervento normativo in commento, quindi, è opportuno anzitutto ripercorrere brevemente l’interpretazione che la giurisprudenza ha dato dell’istituto di cui all’art. 10-bis.
di Avv. Fausto Gaspari
Esame della disposizione e breve sintesi del pertinente quadro giurisprudenziale precedente alla riforma.
Segnatamente, l’obbligo dell’amministrazione di comunicare i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, introdotto (contestualmente a quello di tener conto delle deduzioni dell’interessato) dall’art. 6, co. 1, della legge 11 febbraio 2005, n. 15, consiste nel fatto che, nei procedimenti ad istanza di parte, il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima di adottare formalmente un provvedimento negativo, è tenuto a comunicare agli istanti i motivi che impediscono l’accoglimento della domanda, in modo che gli stessi interessati, entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, possano presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti, in modo da superare le ragioni che l’Amministrazione pone come impeditive all’accoglimento dell’istanza o rimuovere le circostanze che le hanno determinate.
Come pure si accennava in premessa, dunque, la ratio dell’introduzione dell’istituto di cui all’art. 10-bis è quella di favorire la partecipazione al procedimento amministrativo da parte del privato, onde coinvolgerlo nell’esercizio della funzione amministrativa attraverso un momento dialettico nel corso della formazione della decisione, rafforzando così, da un lato, le garanzie poste in capo agli amministrati e, dall’altro, l’istruttoria procedimentale, che può dirsi arricchita dal contributo specifico del privato sulla proposta di decisione elaborata dall’amministrazione. In tal senso, l’istituto persegue anche un chiaro intento di deflazione del contenzioso.
A tale ultimo riguardo, va chiarito che la giurisprudenza è costante nel riconoscere che il preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis ha natura di atto endoprocedimentale, come tale privo di immediata lesività per il destinatario, in capo al quale, quindi, non sorge alcun onere di impugnazione, quanto piuttosto il diritto di presentare proprie osservazioni (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 17 marzo 2020, n.1173).
Al fine di consentire al privato di influenzare la decisione della pubblica amministrazione che, sulla base delle osservazioni, dei documenti o delle modifiche presentati dall’interessato, potrà rivedere le conclusioni prospettate nel preavviso di rigetto, è previsto che delle osservazioni presentate dal privato, sempre che siano pertinenti, l’amministrazione debba tenerne conto nella motivazione del provvedimento finale.
Detto obbligo, tuttavia, è stato depotenziato dalla giurisprudenza amministrativa, nella quale è solita ritrovarsi la regola in base alla quale l’amministrazione non è tenuta ad una puntuale confutazione delle deduzioni presentate dal soggetto interessato, ritenendosi soddisfacente l’esplicitazione delle ragioni complessivamente e logicamente rese a sostegno della decisione ad esito dell’istruttoria al riguardo espletata, senza che si possano, al contrario, interpretare gli obblighi motivazionali posti in capo all’amministrazione come onere di un’analitica replica agli argomenti sollevati dal privato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1933).
Inoltre, sebbene non manchino pronunce di senso opposto (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 16 novembre 2020, n. 5262), la giurisprudenza amministrativa, prendendo le mosse dalla logica prevista dal secondo periodo del comma 2 dell’art. 21 octies, per cui non è consentito l’annullamento dei provvedimenti amministrativi il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, è solita sostenere che il mancato rispetto dell’obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di una istanza, sulla base di una equiparazione tra violazione dell’art 10 bis e quella dell’art. 7 (comunicazione dell’avvio del procedimento, cui la predetta previsione espressamente si applica) della legge 241 del 1990, non è sempre idoneo a giustificare l’annullamento dell’atto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2013, n. 2402).
Infine, occorre pure rammentare che la giurisprudenza, sebbene abbia in più occasioni ribadito che non deve sussistere un rapporto di identità tra il preavviso di rigetto e la determinazione conclusiva del procedimento, ben potendo la pubblica amministrazione ritenere nel provvedimento finale di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche, ha pure confermato che “il contenuto sostanziale del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dalla comunicazione ex art. 10 bis citato, esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove” (cfr. T.A.R. Veneto, Venezia, sez. III, 21 gennaio 2019, n. 72; Tar Calabria – Catanzaro, Sez. II, 12 gennaio 2016, n. 49; Tar Toscana, Sez. II, 13 gennaio 2011, n. 54; Tar Liguria, Sez. I, 25 febbraio 2015, n. 232). Nel caso in cui l’Amministrazione, quindi, a seguito dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento, abbia rinnovato l’istruttoria procedimentale, la giurisprudenza era solita riconoscere che alla stessa non fosse impedito addurre motivi nuovi rispetto a quelli rilevato come ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Le modifiche apportate all’art. 10-bis dal decreto semplificazioni.
Il c.d. decreto semplificazioni interviene su ciascuno degli aspetti che sopra si sono sinteticamente passati in rassegna.
Per la centralità dell’argomento, vanno anzitutto prese brevemente ad esame le modifiche introdotte dal legislatore sulla disciplina della motivazione dei provvedimenti. A questo riguardo è ora espressamente previsto che, laddove i soggetti interessati abbiano presentato osservazioni nell’ambito del procedimento, la motivazione dell’eventuale provvedimento finale di diniego deve necessariamente tener conto del mancato accoglimento di tali osservazioni. Il che impone al responsabile del procedimento o all’autorità competente di indicare nella motivazione del provvedimento, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che siano conseguenza degli argomenti spesi dal soggetto interessato.
Si tratta di obblighi già affermati dalla giurisprudenza, ma che si trovano oggi espressamente ribaditi nella nuova formulazione dell’art. 10 bis, laddove statuisce che “Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni”.
Sulla concreta applicazione dell’istituto della comunicazione dei motivi ostativi, inoltre, incidono le modifiche apportate dal d.l. Semplificazioni all’art. 21-octies, co. 2 della stessa legge 241/1990, che ora esclude espressamente l’applicazione del suo secondo periodo “al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10 bis”, con la conseguenza che l’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza non potrà essere assimilata, come talvolta avvenuto in giurisprudenza (cfr. Cons. St., Sez. VI, 10 febbraio 2020, n. 1001), all’ipotesi in cui sia mancata la comunicazione di avvio del procedimento al fine di dare applicazione al meccanismo che consente all’amministrazione di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto comunque essere diverso da quello in concreto adottato.
Sul punto, tuttavia, è necessaria una precisazione: il legislatore ha inteso espressamente riferirsi al secondo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies, sicché resta applicabile la previsione di cui al primo periodo dello stesso comma 2, a mente del quale “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Ne consegue che, quando si tratti di un provvedimento di natura vincolata, resta ferma la sua sanabilità anche nel caso in cui l’Amministrazione sia incorsa nella violazione dell’art. 10 bis.
Si tratta, dunque, di modifiche che, sotto tale ultimo aspetto, hanno disatteso i principi di quella giurisprudenza secondo cui la violazione dell’art. 10-bis, anche allorquando si tratti di provvedimento vincolato, “lungi dall’atteggiarsi a vizio meramente formale, è tale da potenzialmente pregiudicare dal punto di vista sostanziale gli interessi delle appellanti, poiché qualora alle stesse fosse stato comunicato il preavviso di rigetto e le motivazioni su cui esso si basava, queste ultime avrebbero potuto senz’altro orientare l’Amministrazione ad adottare un provvedimento, quanto meno in linea teorica, diverso” (cfr. Cons. St., Sez. VI, 1 marzo 2018, n. 1269).
Occorre, altresì, precisare che non tutti i procedimenti ad istanza di parte sono sottoposti alla disciplina dell’art. 10 bis, che, per espressa previsione, non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali, nonché nei casi di generale esclusione della partecipazione elencati all’art. 13 della legge 241 del 1990.
Oltre alle eccezioni espressamente previste dalla legge 241 del 1990, inoltre, per una parte della giurisprudenza, l’amministrazione non è tenuta ad inviare la comunicazione dei motivi ostativi nell’ambito dei procedimenti ad istanza di parte conclusi con delibera di organo collegiale (cfr. T.A.R. Liguria, Genova, sez. I, 8 marzo 2018, n. 208) e nei casi in cui sia possibile adottare una motivazione semplificata ai sensi dell’art. 2 co. 1 della stessa legge in presenza di istanze manifestamente inammissibili o infondate (cfr. T.A.R. Campania, Sez. VI, 28 maggio 2020, n. 2044).
Brevi riflessioni sulla portata delle modifiche introdotte dal dl semplificazioni e problematiche lasciate irrisolte
Sulle modifiche apportate all’art. 10-bis della legge 241/1990 è di recente intervenuto il Consiglio di Stato che, con la sentenza del 27 aprile 2021 n. 3385, dopo aver chiarito l’ammissibilità della convalida del provvedimento amministrativo carente della motivazione nel caso in cui tale carenza corrisponda unicamente ad una insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto riepilogo della decisione presa, ha avuto modo di rilevare che la nuova regola di preclusione procedimentale di cui all’art. 10-bis secondo cui: “In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”, “che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare nella sua interezza ‒ già nella fase del procedimento (e non solo nel processo, come la giurisprudenza già riteneva in alcune ipotesi: cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1321 del 2019), sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati ‒ dovrà trovare attuazione, per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di motivazione”.
In tal modo, il Consiglio di Stato ha riconosciuto che, anche quando si riconosca all’amministrazione la possibilità di tirare nuovamente le fila delle risultanze procedimentali, munendo, mediante convalida, l’atto originario di una argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l’essenza dispositiva, l’atto amministrativo “convalidato” deve essere equiparato a quello adottato a seguito dell’annullamento in giudizio, con la conseguenza che anche in queste ipotesi “l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”.
Questo solo per evidenziare come le modifiche normative che qui si sono brevemente commentate daranno presto vita a pronunce giurisprudenziali volte a chiarirne la reale portata applicativa.
Vi sono, infatti, numerosi aspetti legati all’istituto in commento che restano da definire, come quella, tradizionale, relativa alla pretermissione del terzo nel contraddittorio procedimentale, al quale – escluso dalla partecipazione al procedimento da cui origina l’atto – non rimane altro luogo (oltre alla sollecitazione all’esercizio dei poteri di autotutela) in cui esprimere le proprie argomentazioni che quello del processo, mediante l’impugnazione dell’atto definitivo.
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